Qual è il modo giusto per comunicare la sostenibilità? È la risposta che ha cercato di dare PHYD durante il talk Green influencer: comunicare la sostenibilità, con l’intervista a Camilla Mendini, la prima in Italia a parlare di sostenibilità su Instagram e YouTube e ora un punto di riferimento in tema di slow fashion, economia circolare e zero waste.
La green influencer ha incominciato a parlare di consumo sostenibile, in relazione al settore della moda, nel 2015, quando ancora erano in pochissimi ad occuparsene. L’industria tessile, infatti, è la seconda industria più inquinante al mondo: oltre il 70% dei capi di abbigliamento è costituito da fibre sintetiche, che richiedono enormi quantità di petrolio e combustibili fossili e che nella produzione causano fortissime emissioni di ossido di azoto, uno dei gas serra più pericolosi.
Incomincia quindi a parlare della sua vita, del suo lavoro, dei suoi interessi, cercando di comprendere quali prodotti poter inserire in un mercato, quello italiano, che di sostenibile allora aveva ben poco. Per farsi ascoltare, Camilla, non crea un personaggio, ma rimane autentica ed onesta, guardando dentro di sé, e porta avanti il tema in modo continuo, coerente e credibile.
Il tema dell’onestà e della trasparenza vale per gli influencer che parlano alla propria community e deve valere ancor di più per quei brand che vogliono attrarre i consumatori più coscienziosi. Tuttavia, accade che per alcune aziende, soprattutto le big company, la sfida della transizione ecologica sia troppo grande da sostenere, così ricorrono a ciò che viene chiamato greenwashing, una tecnica di marketing il cui obiettivo è pubblicizzare la svolta ambientale di un’azienda, senza che effettivamente questo cambiamento sia avvenuto o stia avvenendo.
Questi marchi ricorrono all’uso di termini come green e plant-based, inseriscono il colore verde ed elementi accattivanti nelle grafiche senza però modificare i modelli di business o i processi produttivi – operazioni che richiederebbero un forte esborso economico.
Il fenomeno è nato in concomitanza con l’aumento dell’interesse degli utenti e consumatori verso i temi della sostenibilità e sono le grandi aziende a portarlo avanti, perché incapaci di realizzare grandi cambiamenti nella loro produzione.
Purtroppo, ad oggi, la pratica del greenwashing non è ancora considerata illegale e quindi accade che le aziende preferiscano investire in pubblicità anziché in un reale mutamento di paradigma.
Essere imprenditori green oggi non è semplice: i costi sono di gran lunga più alti di quelli della grande distribuzione, a partire dalla forza lavoro che è sempre più delocalizzata. Ma, per contrario, un costo eccessivamente basso di un prodotto o servizio significa che sono stati effettuati dei forti tagli sulla qualità delle materie prime e sui diritti dei lavoratori. Un costo che prima o poi ricade su tutti noi. Perciò non bastano solamente le tante persone competenti sui social o le leggi a tutela dell’ambiente e delle persone, se manca l’impegno di tutti noi.
L’influencer conclude così: “Se tutti provassimo ad essere sostenibili in maniera (im)perfetta, riusciremmo a fare la differenza: non servono e non bastano poche persone ineccepibili nelle loro scelte, è necessario un impegno a tappeto, che coinvolga tutti noi in base alle nostre possibilità e sensibilità. Un percorso sostenibile personalizzato.»
di Alberto Galea